“Mi tornano in mente facce, nomi, lacrime, sorrisi”, è un fiume di emozioni Fabrizio Carucci, responsabile della salute mentale per Medici Senza Frontiere in Libano, quando racconta della sua esperienza nell’organizzazione. Originario del Vallo di Diano, Fabrizio parla del suo lavoro come una vera e propria missione e nell’intervista che segue ci racconta terrificanti realtà e drammatiche emergenze umanitarie.
- Quando hai deciso di entrare a far parte di Medici Senza Frontiere e perché?
“L’1% più ricco della popolazione mondiale possiede più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. Quasi la metà dell’umanità vive con meno di 5.50 dollari al giorno. Ogni giorno 10.000 persone muoiono perché non hanno accesso a un’assistenza sanitaria. Questi sono i fatti che mi hanno spinto verso il lavoro umanitario e verso Medici Senza Frontiere. Fin dalla sua fondazione, Medici Senza Frontiere si è posta due obiettivi: intervenire tempestivamente nelle situazioni di crisi, aiutando tutti, senza distinzione di appartenenza politica, nazionalità o credo religioso e prevenire le guerre e le conseguenze delle catastrofi, agendo anche sul piano politico nei Paesi più ricchi e influenti.
Lavoro con Medici Senza Frontiere perché ne condivido i principi e perchè vedo con i miei occhi ogni giorno cosa significa donare cure alle persone in situazione di estrema vulnerabilità. E’ il paradigma alla base di quello che facciamo che mi motiva. L’obiettivo non è il profitto, l’obiettivo è donare cure di alta qualità, salvare vite, essere sempre dalla parte delle persone più vulnerabili”.
- Di cosa ti occupi nello specifico?
“Mi occupo di salute mentale. Negli ultimi anni si è sempre più riconosciuto l’importante ruolo che la salute mentale svolge nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo globale, come dimostra l’inclusione della salute mentale negli obiettivi di sviluppo sostenibile. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione è una delle principali cause di disabilità. Il suicidio è la seconda causa di morte tra i 15-29enni. Le persone con gravi condizioni di salute mentale muoiono prematuramente – fino a due decenni prima – a causa di condizioni fisiche prevenibili. Nonostante i progressi compiuti in alcuni Paesi, le persone con condizioni di salute mentale spesso sperimentano gravi violazioni dei diritti umani, discriminazioni e stigmatizzazione. Per decenni Medici Senza Frontiere ha fornito un supporto alla salute mentale alle persone di tutto il mondo focalizzandosi su diverse tipologie di servizi, dal primo aiuto psicologico in contesti di emergenza a servizi di salute mentale specialistici, supporto psicologico, psicoterapia, cure psichiatriche. Nel 2019 i teams di salute mentale MSF hanno fornito 400.200 sessioni individuali”.
- Al momento ti trovi a Beirut, com’è la situazione lì?
“Il Libano è un Paese complesso. Sono tanti i fattori che impattano pesantemente sulla vita di tutti giorni. Dare anche una vaga idea dell’attuale situazione in Libano in poche righe è impossibile: le forti divisioni sociali e religiose alla base della Costituzione e della società libanese; le tante guerre avvenute in questo Paese negli ultimi decenni; l’esplosione avvenuta nel porto di Beirut il 4 agosto 2020 che ha causato oltre 200 vittime, 7.000 feriti e oltre 300.000 sfollati interni; la pandemia Covid-19 in corso; la gravissima crisi economica e politica in corso, questi sono i principali eventi in corso nell’attuale scenario libanese. Nonostante gli sforzi del Ministero libanese della sanità pubblica nel sostenere l’assistenza sanitaria primaria e secondaria, attualmente, a causa della crisi economica, l’assistenza sanitaria per rifugiati e per parte della popolazione è inaccessibile. I teams MSF forniscono cure per patologie acute e croniche, servizi per la salute riproduttiva, risposta sanitaria per il Covid-19, interventi per la salute mentale, attività di promozione della salute. Nel 2020 MSF in Libano ha effettuato 152.900 consultazioni ambulatoriali mediche, 11.600 consultazioni psicologiche individuali, 9.430 persone ammesse in ospedale, 4.610 supporti al parto”.
- In base alla tua esperienza, quale ritieni che sia l’emergenza umanitaria più grave che i vari Paesi dovrebbero affrontare più urgentemente?
“E’ una domanda complicata. Non so qual è la più grave emergenza umanitaria, le emergenze umanitarie sono tutte diverse. La mia opinione è che la più grande crisi sia la crisi di umanità in generale. Associando liberamente e pensando alle mie esperienze passate con Medici Senza Frontiere mi viene in mente sicuramente il Sud Sudan. Ho lavorato lì nel 2018, a Yei, una piccola città a sud del Sud Sudan. In quest’area la guerra civile, iniziata nel dicembre 2013, è proseguita con gravi abusi contro i civili e persone vulnerabili. In questo contesto la violenza di massa, combattimenti armati dovuti alla guerra civile e alle contrapposizioni entiche erano all’ordine del giorno. La violenza di massa in Sud Sudan aveva avuto un forte impatto sulla società a tutti i livelli, cambiando abitudini, credenze, sfaldando le famiglie, creando solitudine, paura, isolamento, abuso di droghe, sofferenza, e purtroppo morte. In questo contesto l’intervento di salute si focalizzava soprattutto nella cura di sintomi psicologi post-traumatici della violenza di massa. Molti pazienti avevano subito stupro, lo stupro era usato come arma di guerra in quel contesto.
Mi ricordo che in Sud Sudan ho lavorato per un breve periodo in un’altra città chiamata Pibor per dare supporto psicologico a bambini soldato. Mi ricordo che erano bambini e bambine molto piccoli, anche meno di 10 anni, arruolati contro la propria volontà in milizie e forzati a combattere. In questo contesto, durante l’arruolamento forzato, i bambini erano totalmente asserviti alle milizie per svolgere diversi compiti tra cui attività armate di prima linea, quindi combattimento attivo. Quei bambini avevano sofferto molto in diverse situazioni traumatiche, avevano visto i loro amici morire, avevano sofferto violenza fisica e sessuale. Erano bambini totalmente asserviti a qualsiasi ordine del commander e se gli disobbedivano venivano picchiati o arrestati. Essere un bambino soldato aveva profondamente segnato la loro psiche. Uno scenario che prima di vedere questo Paese, il Sud Sudan, non avrei mai potuto immaginare.
Poi mi vengono in mente i tanti rifugiati che ho conosciuto, mi viene in mente Lesbo in Grecia, simbolo della crisi umanitaria sofferta da rifugiati. A Lesbo, come conseguenza dell’accordo tra Europa e Turchia del 2016 sulla gestione dei flussi migratori, è stato allestito un campo per 3.000 rifugiati ma in alcuni periodi i rifugiati presenti nel campo sono stati più di 20.000 in condizioni terribilmente disumane, una sorta di enorme prigione. Nonostante il campo di Moria abbia un’estensione enorme, in qualsiasi punto del campo ci si trovi non è possibile guardarsi intorno senza vedere filo spinato e grossi cancelli con sbarre metalliche. Ricordo la prima volta che sono entrato nel campo, ho avuto l’impressione di stare in un’enorme prigione. Tutte le persone presenti nel campo vengono registrate con un numero e da quel momento la persona smette di avere un nome, un’identità, una storia. Diventa quel numero. A Lesbo ho visto famiglie, bambini, gelarsi sotto la neve in inverno, ho visto donne terrorizzate che non volevano muoversi nel campo per paura di subire ancora violenza sessuale. Ho ascoltato i racconti di uomini in fuga dai loro Paesi di origine perché torturati e umiliati. Ho guardato negli occhi genitori rassegnati a vedere crescere i propri figli tra filo spinato e sbarre di ferro. A Lesbo ho visto bambini ritirarsi totalmente in sè stessi, smettere di parlare, di giocare, di nutrirsi. Bambini in preda a una sorta di rassegnazione inconsolabile. Molti i casi di autolesionismo e pensieri suicidari anche tra bambini molto piccoli. Casi di mutismo selettivo, PTSD (stress post-traumatico), depressione, ideazione suicidaria.
Sempre pensando alle mie esperienze, mi viene in mente la Libia, dove i rifugiati sono esposti a detenzioni arbitrarie e terribili atrocità: stupri, terribili forme di tortura, uccisioni, rapimenti, maltrattamenti a scopo di estorsione. Atrocità che in Libia sono minacce quotidiane che spingono le persone alle pericolose traversate in mare. Purtroppo questa situazione è ancora attuale, ancora oggi moltissime persone sono detenute arbitrariamente nei campi libici. Bambini, donne, uomini in fuga. Spero che l’Italia abbandoni al più presto le politiche di deterrenza e contenimento in Libia e si concentri piuttosto sulla salvaguardia e protezione di uomini, donne e bambini nel rispetto dei loro diritti umani”.
- Hai lavorato anche per i bambini? Ci puoi raccontare un episodio che ti sta particolarmente a cuore?
“Me ne vengono in mente tanti. Mi vengono in mente i grandi occhi dei bambini africani dopo essere stati curati e salvati dalla malaria. Mi vengono in mente bambini che riprendono a giocare e a rincorrersi in ospedale dopo essere stati curati dalla malnutrizione. Bambini sbarcati sulle coste siciliane e scampati all’orrore libico. I bambini di Lesbo guardare al di là delle sbarre del campo. Mi tornano in mente facce, nomi, lacrime, sorrisi. Un episodio che mi è rimasto in mente è un bambino siriano, a Lesbo, scappato dalla guerra insieme alla sua famiglia. Il bambino aveva circa 10 anni, prima della fuga dalla guerra verso l’Europa aveva avuto uno sviluppo normale ma, improvvisamente, durante il viaggio aveva smesso di parlare manifestando ritiro e mutismo. Quando gli psicologi del team MSF hanno iniziato a lavorare con il bambino, i suoi genitori non avevano alcuna speranza che potesse tornare a parlare. Dopo alcune settimane di supporto psicologico, attività individuali e attività di gruppo, il bambino piano piano cominciò a essere più partecipativo nelle interazioni sociali, prima a livello non verbale poi man mano sempre di più fino ad esprimersi di nuovo anche con la parola. Ricordo la gioia del team e della famiglia quando il bambino ricominciò a esprimersi anche verbalmente, fu davvero una bella giornata”.
- C’è qualcosa della cultura italiana che ti piace trasmettere e far conoscere all’estero? Quale?
“Più che altro all’estero conoscono l’Italia. In qualsiasi Paese, quando mi presento e dico che sono italiano, le persone non restano mai indifferenti. L’Italia evoca sempre emozioni, le persone spesso replicano imitando un italiano che parla gesticolando con la mano a pigna, citano giocatori di calcio italiani come Baggio e Del Piero, parlano di cibi italiani, film italiani, musica italiana, vestiti italiani. In generale l’Italia evoca all’estero cose meravigliose, la pizza Margherita, le gondole di Venezia, Capri, i tramonti siciliani, Trastevere, il mare, il sole. Le persone quando pensano all’Italia lo fanno con uno sguardo sognante, contemplano un immaginario di bellezza, arte, gusti, odori e colori mediterranei. L’Italia è un Paese al centro di mondi e viaggiando ci si rende conto che molte tradizioni ci accomunano al Medio Oriente, altre all’Europa. L’apertura verso popoli e culture: forse è questa la cosa che più mi piace trasmettere. Ovviamente oltre alla Carbonara e alla Cacio e Pepe”.
- Cosa ti ha insegnato Medici Senza Frontiere? E cosa ti hanno insegnato i vari popoli che hai avuto modo di conoscere?
“Le missioni con MSF mi hanno insegnato molto, sia dal punto di vista umano che dal punto di vista professionale. Vedere le persone riuscire a rialzarsi grazie all’aiuto dei medici e degli psicologi MSF è stata una grande fonte di emozione e di motivazione per fronteggiare situazioni così difficili. Ogni popolo è una scoperta. La lezione principale che ho imparato è che l’importante è rimanere umani, sempre. Chiudo questa intervista con un concetto preso in prestito da Zygmunt Bauman che mi auguro sia stimolo di riflessioni per i lettori di Ondanews. Secondo Bauman, la felicità non consiste in una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà: Ci siamo dimenticati della felicità. Alla sua costruzione, ricerca, speranza abbiamo sostituito il desiderio. E il desiderio del desiderio: un castello di carta che, generando iperconsumo di massa, ha dissolto legami, relazioni, forme del fare e del convivere”.